“Non c’è futuro, e senza futuro il presente è solo il passato. Per questo sono qui accanto ma non mi vedi. O mi vedi e non mi riconosci. Mi fissi e mi attraversi con lo sguardo. Vedi altri, di altri tempi. […] Sei nel nostro spazio ma sospesa in un tempo tutto tuo”.

L’Alzheimer è una patologia insidiosa, che colpisce il cervello deteriorando memoria e funzioni cognitive. L’erosione inesorabile delle cellule nervose cerebrali finisce però anche per colpire la sfera umana e familiare della persona colpita. Oggi più che mai parlare di demenza senile e di Alzheimer significa parlare alle famiglie e talvolta alla solitudine e sopraffazione che accompagnano la diagnosi.

Ne abbiamo parlato con l’attore Giulio Scarpati, che su questo tema ha scritto un libro e partecipato al documentario La memoria delle emozioni.

Giulio Scarpati nasce come attore di teatro e diventa noto al grande pubblico con il grande successo della serie tv Un medico in famiglia, dove interpreta il ruolo del dottor Lele Martini. Al cinema ha lavorato con registi come Ettore Scola, Marco Tullio Giordana e Paolo Virzì. Ha vinto il David di Donatello col film Il giudice ragazzino. Nel 2014 è uscito il suo primo libro Ti ricordi la casa rossa? – Lettera a mia madre, un viaggio struggente nella memoria a fianco della madre colpita dall’ Alzheimer; su questo tema nel 2023 ha partecipato a La memoria delle emozioni, docufilm, in onda su RaiTre il 21 settembre, in occasione della giornata Mondiale dell’Alzheimer e presentato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia.

Partendo dalla sua frase “Restituire la dignità attraverso la memoria”, come è nata l’idea di raccontare in un libro la sua vicenda personale legata all’Alzheimer?

“Tante volte mi hanno proposto di scrivere libri ma ho sempre risposto che non avevo nulla da dire e che non sono uno scrittore. Poi mia madre si è ammalata di Alzheimer, malattia che all’inizio non avevamo compreso: ci siamo comportati in modo istintivo pensando ad una componente caratteriale dell’età. Solo dopo è arrivata la certezza anche dal punto di vista medico, e nel tempo ho deciso di raccontare senza filtri questa esperienza, compresi gli sbagli che abbiamo fatto. Ho raccontato, per esempio, un episodio in cui accompagnando mia madre nella sua città di origine, Napoli, ero felice nel vedere che ricordava tutti i luoghi della sua infanzia, poi uscendo da una chiesa disse «Bella questa chiesa, ce n’era una uguale anche a Napoli», e io scioccamente ho risposto «Ma noi siamo a Napoli!», e ho visto nei suoi occhi lo smarrimento totale. Si commettono anche questi errori perché non si sa bene come  comportarsi; pertanto, ho pensato che il mio racconto potesse aiutare quanti si trovano a vivere questa malattia.”

Sensibilizzare su tematiche delicate che riguardano la salute aiuta a sdoganare ed abbattere gli stigmi sociali: lei in questo ha fornito un contribuito importante, con il libro prima e con la produzione cinematografica quest’anno. Che riscontro ha avuto?

“Quando ho scritto il libro, nel 2013, questa malattia era ancora un tabù ed era più complicato per i parenti avere delle linee guida. Ho voluto raccontare quindi anche la solitudine in cui si trovano spesso i cari del malato. Spesso mi è capitato di sentirmi dire «Ho letto il libro e sto vivendo le stesse cose». Proprio di recente una donna mi ha raccontato come ascoltare certe parole l’abbia aiutata a comprendere le tappe della lenta degenerazione della malattia.

Ho ribadito spesso che questa malattia ha un costo enorme anche in termini economici: io, insieme a mio fratello Luigi e mia sorella Irene abbiamo potuto farci carico delle spese e lasciare mia madre nella sua casa, tra i suoi riferimenti, assistita, ma sono tante le famiglie che andrebbero aiutate e supportate in questo senso affinché i pazienti possano conservare la loro storia.”

Conservare il bello e restituirlo anche nei momenti più difficili è dunque possibile?

“Io ho voluto riempire il libro di ricordi belli, perché scrivere è stato terapeutico dapprima per me e poi per chi lo avrebbe letto. La memoria bella rischia di scomparire quando hai una persona che non corrisponde più a quella che è stata. I ricordi belli facevano bene a mia madre ma soprattutto facevano bene a me: quando hai vicino una persona malata stenti a riconoscerla, perdono il concetto spazio-tempo, risulta tutto confuso. Questa malattia è uno “schiaffo” per i parenti ma può rappresentare anche un modo per fermarsi e rivedere le priorità.”

Per la sua esperienza, come si può comunicare con un malato di Alzheimer?

“Io inizialmente usavo far ascoltare a mia madre la musica che amava, le canzoni napoletane di Murolo, poi col tempo non le ricordava più. L’unico essere vivente capace di strapparle un sorriso era la gatta che le stava vicino. Poi ogni malato è a sé: mia madre inizialmente ha avuto una fase di aggressività, era assediata da fantasmi e paure, e di fronte a questo ti trovi impotente. Credo che sia necessario trovare una comunicazione affettiva alternativa, non importa se si viene scambiati per un’altra persona, l’importante è infondere serenità, affetto ed empatia.”

Ha un ricordo emotivamente più forte legato al percorso che ha vissuto con sua madre?

“Sicuramente mi ha profondamente toccato e addolorato aver trovato, dopo la sua morte, una raccolta di articoli riguardanti la memoria in cui sottolineava alcune parti. Ho capito quindi che lei aveva preso coscienza che c’era questo problema, nonostante negasse l’Alzheimer, e da donna molto attiva quale era voleva capire il suo problema.”

Come avete capito che iniziava ad esserci qualcosa che non andava?

“Mia madre era una donna molto impegnata, lavorava al Ministero dell’Ambiente e aveva diversi documenti e suoi scritti in casa; nei suoi faldoni ci capitava all’improvviso di trovare documenti che non c’entravano nulla.”

Come nasce la collaborazione con Il Paese Ritrovato Di Monza del docufilm?

“Quando ho debuttato con i miei spettacoli teatrali a Monza ho visitato la struttura del Paese ritrovato, nato da una cooperativa sociale, in cui i pazienti del centro vivono come un piccolo paese, così da permettergli di condurre una vita quasi normale: per esempio hanno accesso al barbiere, giornalaio, al bar… sono coinvolti in numerose attività sociali e ho trovato questo sistema molto utile per mantenere le relazioni sociali. Quando mi hanno proposto di offrire la mia testimonianza sono stato felice di accettare, ho pensato anche che mia madre sarebbe stata contenta che parlassi di lei e che aiutassi altre persone con la mia esperienza.”

Nella pellicola i malati della struttura del Paese Ritrovato di Monza e gli operatori che li seguono in questo percorso di cura sono protagonisti delle loro stesse storie. Cosa lo ha colpito maggiormente di questa esperienza in cui, di fatto, è tornato a rivivere LA SUA STORIA?

“Quello che maggiormente mi ha commosso è stato ascoltare una operatrice che accanto ad una paziente molto volitiva e attaccata alla vita ha esclamato con gli occhi lucidi «Forse io non sono così forte, io sono fragile» segno che sono davvero vasi comunicanti i pazienti e gli operatori, c’è molta comunicazione e condivisione. Sicuramente vivere con stimoli, attività sociali, teatro aiuta molto e andrebbe replicato nelle nostre città.”

Ci ha parlato dell’utilizzo del teatro come stimolo e supporto alla terapia, cosa ne pensa?

“Il teatro è molto importante, soprattutto per le nuove generazioni. Andrebbe portato nelle scuole affinché possano dare un nome alle loro emozioni per non restare a digiuno di educazione sentimentale: in questo il teatro è un mezzo potente, come anche il gioco. Spesso mi chiedo anche quali benefici si avrebbero unendo i bambini coi malati di Alzheimer, penso che andrebbe indagato uno strumento di condivisione di questo tipo in cui comunicano le diverse generazioni. In generale soluzioni umane e sociali si possono portare avanti parallelamente alla scienza.”

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