L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce la medicina di genere come lo studio dell’influenza delle differenze biologiche (definite dal sesso), socioeconomiche e culturali (definite dal genere) sullo stato di salute e di malattia di ogni persona.

Questa branca della medicina comprende anche lo studio delle differenti risposte ai farmaci in base al sesso e al genere. Negli ultimi anni, infatti, stanno assumendo sempre più rilevanza alcuni rami collaterali della farmacologia stessa come, ad esempio, la farmacogenetica (che si occupa dei fattori genetici ereditari che creano differenze tra gli individui nell’azione dei farmaci) e la farmacologia di genere, che evidenzia e definisce differenze di azione, efficacia e sicurezza dei farmaci in funzione del genere.

Approfondiamo alcuni interessanti aspetti sulla farmacologia di genere con la dottoressa Silvia De Francia, Professoressa Associata in Farmacologia presso il Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche dell’Università di Torino, giornalista per Stampa e Repubblica, divulgatrice scientifica, autrice del primo libro di taglio divulgativo su Medicina e Farmacologia di Genere (La Medicina delle Differenze: Storie di Donne, Uomini e Discriminazioni, Neos Ed, 2020). 

Dottoressa Silvia De Francia

Professoressa, come nasce la medicina di genere, che lei ha ribattezzato medicina delle differenze?

“La medicina di genere nasce all’inizio degli anni ’90, tuttavia, ad oggi, non è ancora particolarmente applicata. Si tratta di un approccio multidisciplinare volto a considerare il peso delle variabili di sesso e di genere sull’andamento delle comuni malattie e sulla risposta al trattamento farmacologico. Questa è la definizione data recentemente dall’OMS e ripresa nel piano del 2019 approvato dal Ministero della Salute italiano. I prodromi del concetto di medicina di genere sono da ricercarsi nel 1991, con la pubblicazione sul New England Journal of Medicine di un articolo scientifico chiamato “La sindrome di Yentl”, nel quale la cardiologa Bernardine Healy pone per la prima volta l’accento sulla disparità di diagnosi e trattamento in ambito di patologia cardiovascolare tra la popolazione maschile e quella femminile.

Quindi tutto nasce nel 1991; per anni però resta sotto silenzio. L’eco del 1991 arriva in Italia nel 2016: la allora ministra della salute Beatrice Lorenzin, in uno dei quaderni ministeriali, pone il genere come determinante di salute. Da lì, l’articolo 3 della legge 3 del 2018, parla dell’applicazione della medicina di genere all’interno della diffusione del servizio sanitario nazionale italiano, e nel 2019 c’è il piano attuativo che consta di 4 principi cardine in cui inserire questa nuova branca: nella stesura dei pdta (piano diagnostico terapeutico assistenziale); nella ricerca (biomedica-biomedicale-farmacologica-psicosociale); nella formazione e aggiornamento professionale; nella comunicazione attraverso i mass-media di questi concetti al pubblico.”

Cosa ha spinto la ricerca ad orientarsi verso l’aspetto delle differenze di sesso e genere anche in farmacologia?

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“Le prime indagini in ambito sesso-specifico in un contesto di sperimentazione animale risalgono al 1932, quando due scienziati inglesi (Nicholas e Barrow) videro che la somministrazione di sedativi a cavie di sesso maschile e cavie di sesso femminile, a parità di patologia, inducevano più profonda sedazione nelle femmine.

Tuttavia, nonostante venissero formulate ipotesi ed esistessero evidenze anche durante gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, la sperimentazione sul modello femminile in ambito farmacologico, sia preclinico che clinico, è sempre stata tenuta al margine. È del 1993 l’indicazione dell’FDA di iniziare a considerare il sesso e il genere come determinante di salute. Ad oggi ci troviamo, in ambito di sperimentazione preclinica e clinica dei farmaci, nella seguente situazione: nessun obbligo di arruolamento di cavie sia di sesso maschile che di sesso femminile nella sperimentazione preclinica, un arruolamento abbastanza buono nelle fasi 2 e 3 per quanto riguarda la sperimentazione clinica ma non per tutti i farmaci, non per tutti i setting geografici e, in alcune fasi, le donne sono ancora molto poco arruolate. Uomini, donne e persone transgender rispondono differentemente ai farmaci: se si continuerà a studiarli come in parte succede ancora oggi, quindi escludendo dei modelli, la principale conseguenza sarà la mancata efficacia dei farmaci nella popolazione reale ed una maggiore tossicità dovuta proprio a differenze sesso-specifiche in termini di farmaco cinetica e farmaco dinamica.”

Rispetto ai farmaci, quali sono le reazioni avverse più comuni nelle donne?

Dipende molto dalla categoria di farmaci che andiamo a considerare. Per esempio, in ambito oncologico possiamo dire che gli effetti collaterali tipici degli antineoplastici siano molto più comuni nei soggetti femminili o, per esempio, casi spot presentati dalla letteratura scientifica evidenziano reazioni avverse all’assunzione di statine (farmaci utilizzati per abbassare i livelli di colesterolo) principalmente nelle donne. Alcuni antidepressivi sono correlati ad effetti collaterali di tipo cardiovascolare (infarto, sanguinamento) principalmente nella donna. Oltre ad effetti collaterali vi è anche una riduzione in termini di efficacia: per quanto riguarda i farmaci anestetici, ad esempio, l’efficacia è ridotta nelle donne quindi la sedazione è più difficile e le reazioni avverse al risveglio sono maggiori, dopo un’anestesia generale. Altro esempio sono gli antipertensivi: l’efficacia risulta ridotta in soggetti femminili di una certa età, in menopausa o sovrappeso. In questi casi la regolazione della pressione arteriosa è molto più difficile. In conclusione, è interessante dire che le donne mescolano molti più farmaci, usano i fitoterapici e quindi sono un campo in cui le interazioni sono molto più frequenti rispetto agli uomini.”

Nell’ottica dello studio del genere si pone anche la questione della popolazione transgender. Potrebbe farci qualche esempio di differenza di medicina genere specifica negli individui transgender in relazione al loro sesso biologico di appartenenza?

“Intanto, dal punto di vista dell’assistenza sanitaria ci troviamo in una situazione in cui contano moltissimi aspetti, come la mancanza di competenze specifiche da parte del personale sanitario: ci si può trovare in occasioni in cui una transizione sessuale porta un uomo a diventare donna ma, per motivi chirurgici, a quest’uomo viene mantenuta la prostata quindi il dosaggio del PSA diventa una ragione di imbarazzo, e anche per gli operatori sanitari c’è il problema della difficoltà nell’approccio. Ancora peggio, forse, è la donna che diventa uomo e conserva le ovaie e l’utero e deve fare un pap-test. Né dal punto di vista sociale né da quello anagrafico siamo pronti ancora ad accogliere questo incredibile cambiamento.

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Dal punto di vista della risposta al trattamento farmacologico, le evidenze di letteratura sono ancora scarse poiché non si arruolano persone transgender negli studi di sperimentazione clinica dei farmaci, men che meno esistono modelli sperimentali animali transgender. I farmaci interagiscono con gli ormoni, quindi lo studio della variabilità ormonale femminile si inquadra ulteriormente nello studio della variabilità ormonale nella persona transgender che compie la transizione di sesso. La risposta al trattamento farmacologico sarebbe quindi da studiare mese per mese dal momento in cui inizia il cambiamento. Una sperimentazione sensata dovrebbe, ovviamente, coinvolgere modelli di questo tipo, ma si è ancora lontanissimi.”

Cosa si aspetta e auspica per il futuro della ricerca scientifica in questo ambito?

“Dal punto di vista personale mi sento fortunata, perché mi trovo in un contesto lavorativo in cui porto avanti quello in cui credo: il servizio di farmacologia clinica si occupa di questi aspetti, pubblichiamo moltissimo analizzando i dati sesso e genere. L’approccio sesso e genere specifico nella cura, nella terapia e nello studio delle malattie si scontra con il filone umanistico in cui bisogna invece annullare le differenze. Tuttavia, io credo che contare le differenze possa garantire una maggiore equità di cura per chiunque: pensiamo al tumore al seno negli uomini, sono quasi sempre prognosi peggiori perché le cure sono tutte pensate e studiate sulla popolazione femminile. Nel futuro mi aspetto maggiore multidisciplinarietà e che al lavoro della farmacologia di genere venga riconosciuto il potenziale per quello che può fare in ambito sociosanitario.”

Guarda la nostra puntata di Talks dedicata alla medicina di genere

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