Bologna for community, quando il calcio sa diventare inclusione: incontriamo il tecnico del Bologna Siniša Mihajlović.

Cosa rappresenta l’inclusione nel mondo dello sport e in particolare nel calcio? Ne parliamo con l’allenatore del Bologna fc: Siniša Mihajlović che ci racconta delle sue sfide, in campo e nella vita.

Lo sport, infatti, può rappresentare un mezzo molto importante di inclusione sociale, ne è un esempio il Bologna Fc 1909 S.p.A. che – in collaborazione con PMG Italia – ha “messo in campo” un’azione davvero speciale: agevolare la partecipazione delle persone diversamente abili alla vita del Bologna Fc.

Sono stati istituiti, infatti, trasporti gratuiti per lo stadio Renato Dall’Ara il giorno della gara per persone diversamente abili che, altrimenti, non potrebbero o avrebbero forti limitazioni a raggiungere lo stadio.

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La domenica in cui il Bologna gioca “in casa” diventa pertanto non solo un momento di svago ma uno spazio di inclusione reale e tangibile e siamo certi che non appena sarà di nuovo possibile andare allo stadio questa iniziativa proseguirà con il medesimo successo.

L’inclusione – tra le tante definizioni possibili – significa partecipazione, eguaglianza di opportunità e non isolare le diversità, è un valore che si trasmette anche all’interno di una squadra? 

“Noi del Bologna ne siamo un esempio pratico: in squadra abbiamo quest’anno 18 nazionalità diverse, tanti ragazzi che vengono da ogni parte del mondo e ognuno di loro con un carattere differente. Il valore dell’inclusione è proprio questo, poi sta a noi allenatori trovare l’alchimia giusta fra tutto il gruppo, la maniera di motivare le persone e di farci rispettare”.

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Si è trovato a vivere una sfida davvero difficile: combattere la malattia, eppure ha cercato di restare legato al suo lavoro ricevendo innumerevoli attestazioni di affetto e vicinanza tanto da essere raggiunto dai tifosi perfino in ospedale, quanto ha contato lo sport in quei momenti difficili?

“Ho passato quattro mesi in una stanza, solo, sognando di respirare l’aria fresca, incazzandomi alla tv per le partite, seguendo ogni allenamento dei miei ragazzi. Io ho lottato ogni giorno, anche con 40 di febbre per esser presente, al telefono, allo stadio quando possibile, ho fatto sacrifici: il mio lavoro è quello che mi ha tenuto in vita, ma al primo posto c’è mia moglie che è stata lì tutti i giorni dimostrandomi di essere molto fortunato.

Un enorme grazie per le lettere dei tifosi, per gli striscioni, per il pellegrinaggio a San Luca, mi sono sentito davvero parte di una famiglia; i tifosi del Bologna mi hanno fatto sentire un figlio, e grazie ovviamente a tutta la società e ai miei giocatori”.

Lo stadio accessibile ai tifosi con disabilità motorie è un mezzo di inclusione concreta, cosa rappresenta per l’allenatore e per squadra sapere che la partita è veramente alla portata di tutti?

“Rappresenta un valore aggiunto. Del resto, ripeto sempre che ci mancano enormemente i nostri tifosi, questo non è calcio, anche se purtroppo ormai ci stiamo abituando agli stadi vuoti. E all’inizio, quando gradualmente potranno ritornare le persone sugli spalti, ci farà un effetto particolare”.

Che consiglio si sentirebbe di dare a quanti si trovano a vivere un’esperienza di dolore – nella disabilità, nella malattia – e che si sentono sopraffatti?

“Quando stavo male io non mi sono mai sentito un eroe, avere coraggio non serve a vincere queste malattie, e voglio dire a tutti quelli che stanno passando un’esperienza dolorosa che non si devono sentire meno forti se affrontano la malattia in modo diverso, non c’è da vergognarsi ad avere paura, essere disperati, piangere. L’unica cosa che non devono perdere mai è la voglia di vivere”.

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