Stress e resilienza, perché sono importanti nella vita di tutti i giorni?

Ne parliamo con un esperto: Pietro Trabucchi, Psicologo, si occupa da sempre di prestazione sportiva, in particolare di discipline di resistenza. È stato Psicologo della Squadra Olimpica Italiana di Sci di Fondo alle Olimpiadi di Torino 2006 e per molti anni psicologo delle Squadre Nazionali di Triathlon. Ora si dedica alle Squadre Nazionali di Ultramaratona e alla Squadra Olimpica di Canottaggio in vista di Rio 2016, oltre che di numerosi atleti di sport di resistenza. Autore di diversi libri, è Professore incaricato presso l’Università di Verona, e collabora con il Centro di ricerca in Bioingegneria e Scienze motorie di Rovereto (Cerism) e con l’Istituto di Scienze dello Sport di Roma. Si è occupato di formazione in varie aziende sul tema della motivazione e della gestione dello stress.

Lo stress, purtroppo, è considerato la piaga della nostra epoca, quali sono le ragioni secondo lei?

“Dipende anzitutto dei meccanismi con cui viene gestito lo stress, noi abbiamo dei meccanismi ereditati dalla nostra storia evolutiva per cui siamo molto bravi a gestire stressor (agenti stressanti) che sono concreti e materiali come ad esempio il predatore. Oggi invece la nostra società è piena di stressor che sono immateriali: non sono percepibili direttamente: la paura della guerra, la paura della pandemia e la minaccia del futuro.

Questi aspetti hanno l’effetto di attivare le difese più arcaiche che si basano sulla secrezione degli ormoni dello stress ma sono completamente inefficaci rispetto a questo tipo di problemi. Oggi lo stress va affrontato con le parti più moderne, più evolute, più creative del nostro cervello e non con le parti arcaiche.

Altro aspetto secondo me anche la cronicità degli stimoli che proprio perché spesso non sono materiali agiscono su di noi costantemente, a differenza del predatore, per esempio, che è presente in un dato momento e quando è assente lo stress si placa. Infine, come ultimo aspetto direi che gran parte dello stress noi oggi ce lo procuriamo da soli, cioè sono tutta una serie che io chiamo “doverismi” o aspettative indotte dalla cultura della società. Sussistono delle pretese ingiustificate su come le cose devono andare, su come tutti debbano essere perfetti e anche per il fatto che la nostra vita debba essere un continuo di gratificazioni. Tutto ciò induce in realtà insoddisfazione e frustrazione.”

Lo stress, il disagio, l’ansia sono tutti sentimenti con cui conviviamo – amplificati nel momento storico della pandemia – ma si può trasformarli in una energia “positiva”?

“Noi abbiamo la capacità in qualche modo di sfruttare questi stimoli e come si usa dire con una metafora possiamo sfruttarli per uscire dalla nostra area di comfort.

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Questo ci aiuta in quella che secondo le neuroscienze è una delle spinte più forti negli esseri umani che è il bisogno di sentirsi capaci, di aumentare il controllo su sé stessi, sull’ambiente, di imparare cose nuove. Quindi possiamo utilizzare questi aspetti come uno stimolo per metterci in gioco e aumentare le nostre capacità e sicuramente è un grande vantaggio. Lo stress non è cattivo di per sé, non è una minaccia ma lo diventa quando diventa ingestibile. Noi abbiamo bisogno di essere un po’ stressati, nel senso di avere cose da fare, impegni, stimoli e anche problemi da risolvere. È un falso mito che lo stato ideale dell’uomo e del suo cervello sia la quiete assoluta.”

Resilienza è un termine ora molto in voga, lei che invece, ne ha sempre parlato che valore gli attribuisce?

La resilienza è una caratteristica umana fondamentale e nella mia definizione è collegata all’aspetto motivazionale della persona ed è la capacità di rimanere motivati anche in assenza di una gratificazione immediata. Parte del nostro cervello – come negli animali – è programmata per cercare piacere, in realtà gli orizzonti temporali dell’esistenza umana sono più a lungo termine e quindi sperare situazioni non immediatamente gratificanti è parte della nostra esistenza ed è anche l’attrezzattura per gestire certe situazioni. La società attuale, però, spesso illude creando aspettative di continue gratificazioni e quindi diventa un po’ un paradosso la resilienza perché se ne parla molto ma nella realtà viene spesso disattesa.”

Quanto conta la resilienza nel mondo del lavoro?
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“Moltissimo, il mondo del lavoro per definizione noi lo consideriamo quello che una volta si identificava come la sfera del dovere, dello spirito di sacrificio quindi dove non c’è una gratificazione immediata; anche nel lavoro che uno ama comunque ci sono sempre le giornate con aspetti ripetitivi o meno gratificanti; quindi, oggi entrare nel mondo del lavoro può diventare molto problematico se non si è coltivata la resilienza.

Se esaminiamo questo processo da un punto di vista astratto, neuroscientifico, la parte che cerca la gratificazione viene inibita e il processo viene gestito da quelle parti capaci di raggiunge il risultato anche in assenza di un di una ricompensa immediata.”

Cosa possiamo apprendere dagli sportivi che operano in condizioni estreme in termini di auto motivazione?

Tutto della resilienza, della auto motivazione si può apprendere, spesso è un alibi collettivo pensare che certe persone sono nate così e le loro prestazioni sono frutto di capacità innate. Quando ci si conosce bene si lavora insieme a loro ci si accorge che sono capacità costruite e quindi credo che questo sia l’insegnamento da applicare sulla vita di tutti: per quanto possano essere significative e innegabili alcune predisposizioni tutti possiamo costruire queste competenze e possiamo lavorarci.”

Lei ha scritto diversi libri, incentrati su temi tra i quali troviamo lo sviluppo delle capacità motivazionali, la gestione e la resistenza allo stress, l’allenamento mentale. C’è un’esperienza diretta che l’ha particolarmente segnata nell’ambito di queste tematiche?

“Nella gestione delle squadre sotto stress e nella creazione di team resilienti mi viene in mente l’esperienza del 2005 dell’Everest che dove abbiamo creato un team che doveva supportare il tentativo di record a parte di un atleta che cercava di stabilire un record; questo atleta non è riuscito, a 8200 m con molto coraggio ha deciso di non proseguire e sottolineo anche per fermarsi a volte ci vuole coraggio. È una spesso una situazione dove c’è molta pressione da parte degli sponsor e grandi aspettative da parte del pubblico. Il team che doveva supportare è stato sulla montagna per un mese e mezzo, ha preparato tutto il percorso e vegliato sulla sicurezza, è stato in cima anche per mettere in piedi il meccanismo che doveva certificare il record, per questo la ritengo un’esperienza collettiva molto molto importante; inoltre bisogna sottolineare che chi presta assistenza in queste prestazioni non è tenuto avere la stessa motivazione di chi è protagonista.

Dal punto di vista personale un’altra esperienza che narro con  sincerità e con autoironia è abbastanza recente, nel 2019 durante la traversata della Groenlandia, dove per la per la mia età non più giovanissima in un  gruppo con persone che potevano essere miei figli  ho vissuto delle grandi difficoltà personali e non mi vergogno di dire che uno dei processi mentali a cui sono ricorso per per andare avanti per e non dover chiamare l’elicottero che mi venisse a prelevare è stato quello di abbassare un po’ le aspettative di controllo, ho rinunciato a essere magari il migliore, quello perfetto che si posiziona davanti; mettendo da parte l’orgoglio ho dovuto chiedere aiuto ai compagni riuscendo ad ultimare la traversata.

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